Vincenzo Chiesa: viaggio a New York

Il primo giugno 1982 io e mia moglie decidemmo di andare a New York per far visita al nostro figlio Augusto, il quale da circa sei mesi si trovava a Manhattan prima come turista e poi come impiegato in un negozio.

La partenza avvenne da Milano-Linate con un Boehing, che era tra gli aerei più sicuri e confortevoli.
Dopo il sorvolo delle Alpi e uno scalo a Zurigo, riprendemmo il viaggio. Il comandante dell’aeroplano, per mezzo di un altoparlante, ci teneva informati sui nomi delle località via via superate. Ad un certo punto annunciò che stavamo sorvolando la città di Liverpool e la cosa mi sorprese molto: sapevo, infatti, che il continente americano era collocato geograficamente ad ovest rispetto all’Europa, mentre l’aereo stava puntando decisamente verso nord.
Solo più tardi capii il perché: il percorso verso il polo nord e poi il passaggio sulla penisola del Labrador rendono il viaggio più breve, richiedono meno tempo e minor consumo di carburante.

Improvvisamente tutti noi passeggeri ci sentimmo mancare il fiato: un vuoto d’aria di circa 500 metri determinò una caduta dell’aereo verso il basso. La cosa ci spaventò moltissimo e solo la voce rassicurante del pilota riportò la calma tra di noi.
Più tardi incappammo in un forte temporale e anche allora tememmo che l’aereo potesse essere colpito dai fulmini.
L’ultima sorpresa l’avemmo in prossimità dell’aeroporto Kennedy di New York: la pista, ingombra di materiale perduto da un altro aereo atterrato poco prima, ci costrinse ad alcuni giri supplementari sulla città in attesa che essa ritornasse agibile.
Dimenticavo di dire che mezz’ora prima dell’atterraggio una hostess ci aveva consegnato un foglio da compilare: in esso si doveva dichiarare di non avere con sé piante, semi o carne insaccata. Gli americani sono molto guardinghi e non vogliono che nella loro terra vengano introdotte cose che possano danneggiare l’habitat.

Il perfetto atterraggio fu salutato da tutti con un gioioso e caloroso battimani.
Nell’immenso salone di arrivo cercai di sfoggiare, davanti a mia moglie, il mio incerto inglese affidando ad un facchino di colore i nostri bagagli perché li portasse fino al parcheggio dei taxi.
Vi era molta gente ad attendere parenti ed amici, innalzando cartelli con nomi o motti di riconoscimento. Finalmente anche noi vedemmo la scritta “Famiglia Chiesa”: la reggeva un italiano, amico e collega di mio figlio, che si mise subito a nostra disposizione per procurarci un taxi fino al “Saint Moritz Hotel”, dove l’agenzia “Brixia Viaggi” ci aveva prenotato una stanza al 32° piano.
Quell’edificio si trova tra la quinta e la sesta strada di New York, a meno di 50 metri dal “Central Park”, uno dei polmoni verdi della metropoli.

Sistemati i bagagli, entrammo nel parco su una carrozza trainata da un cavallo; alla guida vi era un italiano con smaccato accento meridionale e dall’aria spaurita.
Al ritorno, decidemmo di percorrere la famosissima “5th Avenue” o “Quinta Strada”: essa è considerata la più lussuosa strada cittadina del mondo intero perché ospita i migliori negozi, anche italiani, di abbigliamento e di articoli da regalo e i più famosi grattacieli come l’ “Empire State Building” con i suoi 400 metri di altezza e gli oltre 100 piani. La sua parte più alta è raggiungibile con l’ascensore vigilato da apposito personale che ha il compito di schiacciare i bottoni dei vari piani e di aiutare gli utenti a salire e scendere.
Il giorno seguente Augusto ci accompagnò su una delle due “Torri Gemelle” o “Twin Towers”, sì proprio quelle distrutte l’11 settembre 2001 da due aerei dirottati da terroristi seguaci di Bin Laden, fondatore di “Al Qaida”.
Altre mete “obbligate” furono la Borsa di New York, nota al grande pubblico come “Wall Street” ossia “Via del muro” con riferimento ad un muro costruito a difesa della città attaccata dai pellirosse, e il parco di “Times Square”, ove è collocato un busto marmoreo di Giuseppe Garibaldi. Là vi era anche l’università di New York, dove mio figlio frequentava un corso di economia.

Nel parco accadde un fatto degno di essere raccontato.
Noi eravamo seduti su una panca di legno e stavamo osservando i quadri, le statuine e altri oggetti d’arte esposti lungo il viale da artisti americani. Poco più in là era ferma una autovettura con alcuni poliziotti. Ad un tratto passarono davanti a noi tre giovani in compagnia di una ragazza, tutti di colore; essi ridevano in modo sguaiato e lanciavano insistenti occhiate sospette verso di noi e verso le nostre borse contenenti denaro e macchina fotografica: per loro evidentemente eravamo facili prede da “spennare”.
Fortunatamente i poliziotti, che avevano capito le loro intenzioni, vennero in nostro soccorso: con la loro automobile scoperta avanzarono lungo lo stretto viale e, giunti di fronte ai tre malintenzionati, si fermarono fissandoli a mo’ di avvertimento. La manovra risultò efficace a tal punto che i ragazzi si dileguarono dopo pochi istanti e noi evitammo un più che probabile furto.

Nella foga della mia esposizione ho dimenticato di ricordare la visita al “Modern Arts Museum” o “Museo delle Arti Moderne”, posto sulla continuazione a sud della Quinta Strada verso il quartiere di Harleem.
Non poteva mancare l’ingresso in un negozio di “Tiffany”, pieno di gioielli, di diamanti, di anelli, di collane, ahimé tutti troppo cari per le nostre tasche.

Quali ricordi più vivi conservo di quell’entusiasmante viaggio negli Usa?
Senza dubbio ho ancora davanti agli occhi la grandiosità dei grattacieli, le ampie strade diritte, le lussuose vetrine quasi a sottolineare la manifesta opulenza di quella nazione, ma anche i segni della miseria, quella dei cosiddetti “homeless” o “senzacasa”, che rovistano tra i cestini portarifiuti in cerca di cibo, di birra o di vino.
Un’altra cosa che mi colpì fu la grande facilità per tutti di trovare e di cambiare un’attività lavorativa.

Invito, quindi, tutti i miei lettori a recarsi in quella nazione anche solo per turismo: essi potranno conoscere modi di vivere e di lavorare molto diversi dai nostri.
Mio figlio, dopo tre anni e mezzo, è tornato in Italia, mettendo a frutto le cose là imparate: ora dirige il mio ex studio di commercialista con grandi soddisfazioni professionali ed economiche.

Pralboino 2 settembre 2005

Vincenzo Chiesa

Pubblicato in I nonni raccontano.