Vincenzo Chiesa: i miei ricordi di vita partigiana

Buon compleanno, Vincenzo!

Buon compleanno, Vincenzo!

Mancava poco al 25 aprile 1945. Ero, da quasi un anno, in montagna, in provincia di Brescia; più precisamente in Valle Sabbia”, nel Comune di Pertica Alta, con i “Ribelli”. Col nome di “Ribelli” venivano chiamati i Partigiani delle Fiamme Verdi, formazioni armate apolitiche che conducevano la guerriglia contro fascisti e tedeschi dopo l’armistizio tra Italia e Alleati.

Inizialmente ero nella bassa Valle Trompia, sul colle di San Zeno, posto tra Pezzaze e Pisogne, a 1500 metri di altitudine; poi, il 10 luglio1944 mi ero trasferito sulla Corna Blacca in alta Val Trompia.
Nell’Italia di allora vi erano numerose formazioni di partigiani: il gruppo di “Giustizia e Libertà”, patrocinato dal “Partito d’Azione”; le “Brigate Garibaldi” (partito comunista) e le “Fiamme Verdi”, apolitiche ma agenti sotto l’egida cristiano-cattolica.

Nonostante i molteplici bandi del maresciallo Graziani e della “Kommandantur” tedesca, che minacciavano di morte o di deportazione in Germania i renitenti, non mi ero mai presentato alle armi sotto le insegne della Repubblica Sociale, pur avendone l’obbligo. I tedeschi ormai occupavano l’Italia militarmente e facevano lavorare le nostre industrie a loro beneficio; emettevano cartamoneta a loro piacimento causando così una grande inflazione e un enorme danno alla nostra economia; portavano in Germania di tutto, perfino le corriere ed i tramvai cittadini; arrestavano o uccidevano, oppure inviavano nel loro paese, come prigionieri, quanti italiani erano a loro ostili e quelli che potevano essere utili per il Reich. I renitenti venivano minacciati di morte o di trasferimento in Germania, che era praticamente la stessa cosa
Io, dunque, nonostante i bandi, non mi ero mai presentato alle armi sotto le insegne della Repubblica Sociale: non me la sentivo di aderire al Fascismo e mi ripugnava la sua alleanza con la Germania, specialmente dopo il 9 settembre 1943. In quella data, infatti, alla Cecchignola, nei pressi di Roma, avevo combattuto con il mio battaglione, facente parte del Regio Esercito Italiano, contro i tedeschi che volevano disarmarci.
Quel giorno, ai tedeschi si erano uniti i fascisti dei battaglioni “M”, cioè i battaglioni della Morte o anche battaglioni Mussolini i quali, combattendo già fin da allora contro il nostro Esercito, avevano dato inizio alla guerra civile e fratricida. Era quindi naturale che fossi contrario al Fascismo ed ai tedeschi. Dopo quegli eventi del 9 settembre 1943, non essendomi mai presentato per l’arruolamento, mi ero dato alla macchia.
Alla prima occasione ero andato in montagna con i “Ribelli”: era il 6 giugno del 1944 e proprio in quel giorno gli Alleati erano sbarcati in Francia, dando così inizio alla liberazione dell’Europa. Avevo perciò portato in montagna la bella notizia, che preludeva alla fine della guerra.
Noi “Ribelli” eravamo aiutati fino all’impossibile, nonostante i grandi rischi, dai nostri amici montanari che erano all’alpeggio con le loro mandrie bovine: numerosi fienili vennero bruciati da tedeschi e fascisti, alleati anche per questa bisogna. Per esempio, a Cevo di Val Saviore, in alta Valle Camonica, nei pressi dell’Adamello, era stato incendiato l’intero paese.

Il mio gruppo,”S4″, della Divisione Tito Speri, Brigata Giacomo Perlasca, composto in media da 20 uomini, era sceso dai monti, precisamente dalla Corna Blacca, dove era alloggiato in una piccola malga chiamata “Sacù”, sentendo che la guerra stava ormai per finire ed aveva occupato il fondo valle sistemandosi a Vestone e Nozza. I reparti fascisti ( i cosiddetti repubblichini) erano scomparsi al sentore del nostro arrivo e noi eravamo praticamente i padroni di tutta la Valle, da Vobarno a Idro. Godevamo della simpatia dei valligiani, che ci festeggiavano con pranzi, balli, cene e intrattenimenti vari.

Un reggimento germanico della Divisione Reichfuhrer S.S. in fuga verso la Germania era stato da noi costretto a fermarsi a Nozza e ad arrendersi. Si trattava di una colonna motorizzata composta da 750 uomini armatissimi e decisi, che noi consegnammo agli Americani, giunti subito alla nostra chiamata. La resa di quei tedeschi era stata per noi un grosso e insperato successo. Erano i responsabili dell’eccidio di Marzabotto in Emilia dove, per rappresaglia, avevano bruciato parte della cittadina e ucciso 2000 persone, compresi bambini e donne.
Mentre noi conducevamo le difficili trattative di resa del reggimento nemico, Mussolini, travestito da soldato tedesco in fuga verso la Svizzera con la sua amante Clara Petacci, era stato fermato e catturato dai partigiani sul lago di Como; in quello stesso giorno, Hitler si era ucciso.

Questi eventi significavano la fine della guerra, dopo 4 anni di tribulazioni, di patimenti, di bombardamenti, di morte. Si era trattato di una guerra voluta e provocata da un capo-dittatore, che non aveva minimamente valutato le forze in campo ed aveva buttato l’Italia e gli italiani allo sbaraglio, con colpevole insipienza, fidando, erroneamente, sulla forza del suo alleato e allievo Adolfo Hitler. Era, dicevo, la fine della guerra. Da allora e con l’aiuto dei nostri ex nemici americani, nonchè con la capacità dei nostri connazionali, l’Italia si è risollevata ed è, oggi, una delle più ricche e progredite nazioni del mondo. Gli italiani sono ora liberi, non devono più sottostare agli ordini e alle bizze di un dittatore che gioca con il destino dei sudditi a suo piacimento.

Con la fine del conflitto la mia vita cambiò totalmente. Ritornai a casa dopo più di 2 anni di assenza e ripresi gli studi, interrotti a causa del conflitto, iscrivendomi alla facoltà di Scienze Economiche e Commerciali presso l’Università “Bocconi” di Milano. Nel 1945 mi venne data una borsa di studio riservata agli ex combattenti e così mi laureai nel febbraio 1951. In quei tempi studiavo e mi guadagnavo la vita insegnando matematica e ragioneria in alcune scuole di Brescia e provincia.

Lo stile di vita condotto nei reparti partigiani brilla fra i ricordi del mio virtuale diario di guerra: sempre all’erta, giorno e notte, per il timore di imboscate e rastrellamenti; turni di guardia notturna lunghi e faticosi; marce continue per i trasferimenti, così da evitare che le numerose spie, sguinzagliate dai fascisti, ci localizzassero. Il vitto era costituito, quasi quotidianamente, da polenta e latte oppure da polenta e formaggio che mai mancavano nelle malghe alpine.
Noi ci trovavamo talvolta in dissenso con altre formazioni partigiane per il loro modo scorretto di comportarsi con i malghesi, nostri amici e nostri valorosi aiutanti in ogni circostanza.

Era un tipo di vita fatto anche di faticose e lunghe marce in montagna, stracarichi come muli. Ricordo che una volta il mio gruppo, per lo più camminando di notte e dormendo di giorno nei fienili, andò dalla Corna Blacca, sopra Collio e San Colombano (Val Trompia), fino a Tremalzo, nei pressi di Tremosine e Riva di Trento, per portare in Pertica Alta, con un percorso complessivo di circa 40 kilometri, una decina di fucili, coperte ed altre cose utili, residui di un avio-lancio anglo-americano. Gli Anglo-americani, infatti, aiutavano i partigiani italiani rifornendoli di armi, di munizioni e anche di denaro per acquisto di calzature e di generi di prima necessità.

I fuochi di segnalazione per guidare l'aereo alleato che deve effettuare il "lancio"

I fuochi di segnalazione per guidare l’aereo alleato che deve effettuare il “lancio”

L’avio-lancio era preceduto da un “messaggio speciale”che veniva dato per mezzo di Radio Londra (che alle ore otto di sera trasmetteva un notiziario per l’Italia). Nonostante il rigido divieto di ascolto, tutti gli italiani ascoltavano Radio Londra: essa ci dava le ultime informazioni sul corso della guerra che si avvicinava sempre più al nord-Italia. Il notiziario di Radio Londra, dopo il consueto sermone del colonnello Stevens, si concludeva con la trasmissione di alcuni “messaggi speciali” destinati ai partigiani italiani. Il messaggio speciale per noi della TITO SPERI in Corna Blacca era: “Alberino fa il burro”. Nella notte del terzo giorno successivo al messaggio, noi dovevamo accendere, in località prestabilita sui monti, tre grossi falò, disposti a triangolo isoscele con l’angolo acuto nella direzione del vento. Gli aerei americani, individuato così il luogo del lancio e la direzione del vento, si abbassavano e paracadutavano sul posto armi, munizioni, viveri e generi di conforto.

In Valle Camonica, sul Mortirolo, nei pressi del confine svizzero, le FIAMME VERDI tenevano testa a preponderanti forze fasciste e tedesche dotate anche di carri armati, in una guerra divenuta ormai di posizione, quindi non più guerriglia, utilizzando le trincee residuate dalla prima guerra mondiale.

Debbo dire che la mia vita da “Ribelle” è stata una gran bella avventura, da me vissuta con la radicata consapevolezza di combattere per una giusta causa e conscio dei rischi connessi alla guerriglia. In tema di rischi, ricordo che del mio gruppo di Fiamme Verdi, composto mediamente da 20 uomini, ben 5 sono morti in combattimento o fucilati o addirittura bruciati vivi nei fienili dove si erano rifugiati. Tita Secchi venne catturato a Paio Alto, alle pendici della Corna Blacca e fucilato poi in una caserma di Brescia, così come Peppino Pelosi e Giacomo Perlasca e pure Ermanno Margheriti, Astolfo Lunardi e altri.
Emiliano Rinaldini, catturato in Pertica a Odeno, dopo che il paesino era stato circondato, venne torturato a Idro, riportato poi al paese di Belprato su un viottolo, e qui incitato a fuggire: fu subito steso da una raffica di mitra, dopo i primi passi.

Partigiani accerchiati e costretti alla resa durante un rastrellamento tedesco

Partigiani accerchiati e costretti alla resa durante un rastrellamento tedesco

Tra noi ribelli non ci conoscevamo neppure: infatti ognuno si era dovuto dare un nome falso (il cosiddetto “nome di battaglia” per evitare, in caso di cattura e di torture, di rivelare l’identitità dei nostri compagni con conseguenti rappresaglie sulle famiglie).
Il mio nome da ribelle era “PINO”.
Dirò ora della composizione del mio gruppo, comandato da Paolo Pagliano, già tenente del Regio Esercito. Emiliano Rinaldini era il vice comandante e suo fratello, Don Luigi, era il cappellano che, settimanalmente, veniva in Corna Blacca per il servizio religioso in occasione del quale si recitava la “preghiera del Ribelle”, molto bella e che trascrivo in calce al presente scritto. Tanti di noi erano montanari della Valle, già facenti parte dei reggimenti Alpini, reduci dai diversi fronti di guerra (Russia, Grecia ecc.). Erano uomini indispensabili, capaci di fare di tutto, di costruire rifugi invisibili nei boschi, di cancellare le nostre tracce e di costruirne di false per depistare le spie che sempre ci tallonavano; erano capaci, quegli uomini, di accendere fuochi nel folto della boscaglia, senza che si vedesse il fumo rivelatore della nostra presenza.Vi erano anche studenti che portavano nella compagnia freschezza e idealismo. Poi c’erano i giovanissimi, i “bocia”, sui 16-18 anni , utilizzati come nostre staffette per portare ordini e informazioni.

Tra di noi c’è stato anche un ufficiale americano della 5^ Armata sbarcata a Salerno. L’ufficiale americano, rimasto con noi per 4 o 5 mesi, era fuggito dall’ospedale di Mantova, dopo essere stato preso dai tedeschi a Salerno e trafitto da 11 pugnalate alla schiena. Si chiamava Walter Granecki, di origine polacca e proveniente dall’Ohio. Siamo subito diventati amici: fuggito da Mantova si era diretto verso i monti; io l’ho incontato a Teglie di Vobarno e l’ho portato con me nel mio gruppo. Dopo la fine della guerra è venuto in Italia a trovarmi ed io, quando sono stato in America, a New York nel 1984, gli ho telefonato a Toledo salutandolo e ricordando con lui le nostre peripezie. Con lui avevo imparato a parlare l’inglese.

Sempre in tema di tipo di vita condotta nella guerra partigiana, ricordo le nostre azioni di guerriglia contro caserme delle valli Trompia e Sabbia. Con queste azioni ci rifornivamo di armi e munizioni, di cui c’era estremo bisogno, nonchè di abiti e di coperte per il nostro sonno sui monti.
Un grosso bottino l’abbiamo fatto con l’assalto alla centrale elettrica di Vobarno presidiata da un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana (fascista). Dopo avere disarmato con uno stratagemma il milite di sentinella, abbiamo fatto irruzione nel luogo dove i soldati avevano appena finito la cena e, con le armi in pugno, li abbiamo costretti ad arrendersi e a seguirci sui monti. La nota umoristica della giornata l’abbiamo avuta quando, dopo alcune ore di faticosa marcia notturna, li abbiamo lasciati liberi nei pressi di Provaglio Valle Sabbia, privi di scarpe e calzoni per esporli alle risate e allo scherno dei paesani alle prime luci dell’alba. Quegli “eroi” credevano di essere uccisi, perchè così loro facevano con noi quando riuscivano a prenderci; quando si accorsero di essere veramente liberi e salvi, si allinearono di fronte a noi e, in segno di sentito ringraziamento per aver salva la vita, ci fecero, inconsciamente, l’abituale saluto fascista, saluto da noi accolto con sonore risate e sberleffi.

Un’ultima annotazione: i nostri abiti erano ridotti molto male e, quindi, abbiamo indossato le divise del bottino preso a Vobarno. Arrivati in Pertica, siamo stati avvistati dai partigiani della 62^ Brigata Garibaldi che, vedendoci così vestiti e scambiandoci per “repubblichini”, si erano disposti per accoglierci a suon di fucilate. Fortunatamente, un garibaldino riconobbe Paolo, il nostro comandante, e così tutto si risolse in una fretta di mano ed una risata per l’accaduto.
Dopo l’umiliazione subita, il comandante, maggiore Ciro Di Carlo del 42^ battaglione della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Idro, avendo capito che la nostra base di azione era Teglie (una frazione di Vobarno a circa 600 metri di altitudine), fece occupare il paesetto con molte forze, anche tedesche, e costrinse i pacifici e terrorizzati abitanti, a riunirsi nella parrocchiale; poi i soldati entrarono nelle case col pretesto di cercare i partigiani ma in realtà per rubare.

Concludo con l’affermazione che nella guerra partigiana tutti noi abbiamo portato il nostro idealismo, il nostro patriottismo, il nostro spirito eroico e…perchè no?, anche l’ incoscienza tipica della nostra età.

Vincenzo Chiesa alias “PINO”

LA PREGHIERA DEL RIBELLE

“SIGNORE FACCI LIBERI”

Signore, che fra gli uomini drizzasti la TUA croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi oppressi da un giogo oneroso e crudele, che in noi e prima di noi ha calpestato TE fonte di libere vite, dà la forza della ribellione.

DIO che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi, alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della TUA armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la TUA vittoria: sii nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza.Quanto più s’addensa e incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti.

Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo, fa’ che il nostro sangue si unisca al TUO innocente e a quello dei nostri Morti ad accrescere nel mondo giustizia e carità.

TU che dicesti: “Io sono la resurrezione e la vita” rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia TU sulle nostre famiglie.

Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore, che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.

(Preghiera di Teresio Olivelli)

Pubblicato in I nonni raccontano.