Domenico Margini: la bella Toscana

Quando lasciai la città per andare ad abitare a Seniga, mio paese natale, modificai il mio sistema di andare a caccia e alternai uscite con cani da ferma ad uscite con cani segugi (cani da seguita).
Gli amici di Pralboino, con i quali mi accompagnavo spesso nelle cacce, non possedevano però cani segugi, se non qualche misero animale non adatto al nostro scopo. Bisognava quindi provvedere.

Tramite l’amico fraterno Mario Quadri conobbi a Firenze, dove ci eravamo recati appunto per cercar cani, il signor Bruno Salvadori che, dopo un buon pranzo ed una accalorata disquisizione sui cani, ci portò nel suo ufficio dove teneva due segugi. Erano buoni e bravi e per questo avevano il privilegio di starsene tra le scartoffie.
Salvadori diceva meraviglie di questi due segugi che si chiamavano Moschino e Baffina. Ce li consegnò e noi li facemmo salire in macchina. Al momento di pattuire il compenso, egli ci disse: “Non voglio nulla, purché mi venga assicurato che verranno tenuti bene, come d’altronde se lo meritano. Sono due campioni ed andando a caccia con loro vi divertirete un mondo. Però senza altri cani.” Fummo colpiti dalla generosità di quel signore.

La nostra compagnia, composta da me, Francesco Cherubini, Gianni e Dino Bassini, Paolo Filippini, Giacomo Molinari e Francesco Ferrari fu molto onorata dalla magnanimità di Bruno Salvadori nei nostri confronti, e giorno dopo giorno andava constatando che le parole di elogio sui due cani corrispondevano alla realtà. Fummo orgogliosi di poter disporre di due simili campioni.
Vista l’eccellente qualità di questi due cani, la compagnia decise di recarsi a Firenze dal Salvadori per acquistare cani da esposizione. Così facemmo, lasciandogli parecchie centinaia di migliaia di lire come compenso.
Fummo da lui invitati in una grande riserva, che egli possedeva in campagna, a cacciare lepri e fagiani di cui essa era ricca. Ricordo, oltre la selvaggina, anche quei meravigliosi piatti che sua moglie, la signora Bianca, ci preparava: delizie per il palato.

La riproduzione dei segugi acquistati da Bruno Salvadori non ebbe, secondo il mio parere, un grande successo. I miei amici cominciarono a far accoppiare questi esemplari con altri soggetti che non erano certamente alla loro altezza. Con questo sistema vennero rovinati anche altri segugi che si erano comperati qua e là. Tutti si ricordano ancora quei bei cani portati dalla Toscana e si rammaricano che cani simili non ne esistano più: la razza è stata rovinata! Per fortuna che qualche bell’esemplare si è salvato in quel di Bassano; si tratta però di animali anziani senza più avvenire riproduttivo.

La vera Toscana però la conobbi in seguito, quando arrivammo in quel di Monticiano, dove un ottimo oste, che si chiamava Vestro, ci preparò una cena a base di carne di cinghiale: una cena eccellente, da non dimenticare.
Il giorno seguente al nostro arrivo nella località, fummo accompagnati nella riserva del conte Scrofa per una cacciata al cinghiale.
In quella tenuta, chiamata Pentolina, vidi la vera caccia al cinghiale e capii la vera realtà di quella parte della Toscana. Quando in seguito mi fu presentato il signor conte gli dissi: “Qui si avverano tutti i sogni di un cacciatore”. Apprezzai molto la nobiltà e la magnanimità di quella gente nei nostri confronti.
Con gli amici, ed in particolare con Mario Quadri, facemmo delle belle divertite, cacciando non solo cinghiali, ma anche lepri.
Le canizze sentite in quelle circostanze sono suoni che non si dimenticano mai, mi riecheggiano ancora negli orecchi e mi evocano le più belle cacce al cinghiale.
Come avevo speso parole di elogio per la serietà e l’educazione dei cacciatori della Valle di Ledro, così devo qui esaltare l’amore per la natura dei cacciatori toscani.
Alla caccia alla lepre partecipavano non più di due persone alla volta, e di solito mettevano nel carniere uno o due capi. Qualche volta, invece, facevamo “cappotto”, cioè tornavamo a mani vuote o per meglio dire a carnieri vuoti.
Una volta il conte mi disse: “Signor Domenico, vada a mettersi dietro la cascina Cerbiale Vecchia e lungo un sentiero incontrerà un alto cerro. Si fermi lì”. Francamente non avevo capito bene cosa fosse questo cerro. Seguii comunque il suo consiglio e mi imbattei in un maestoso albero che mi meravigliò per la sua imponenza. Il luogo mi portò fortuna perchè sparai a tre lepri abbattendole tutte e tre.
Quando alla sera ritornammo all’albergo-trattoria da Vestro, egli, che era a conoscenza di tutto quello che succedeva in riserva, mi apostrofò con queste parole: “Tu non sei un cacciatore, ma un killer della caccia!”
Io naturalmente gli ricordai i miei cappotti e gli dissi che il conto pareggiava: non ne fu molto convinto.

Il vero divertimento fu comunque la caccia al cinghiale, che praticammo per vari anni.
Noi organizzavamo delle vere trasferte di una cinquantina di persone (cacciatori, amici, parenti) verso Monticiano. Si partiva in pullman da Bassano Bresciano e la prima tappa era a Poggibonsi da “Alcide”, un albergo- ristorante assai rinomato.
Al mattino molto presto, mentre amici e parenti ancora dormivano, i cacciatori partivano per la riserva della Pentolina e per tutta la giornata cercavano di fare qualche fruttuosa fucilata.
La caccia al cinghiale è alquanto strana: infatti può accadere che uno spari a tre o quattro cinghiali, mentre gli altri quaranta o cinquanta cacciatori non vedano nemmeno l’ombra di questi animali. Anche se non si riesce a sparare, sono comunque delle grandissime emozioni, specialmente quando si vedono o si sentono le grandi canizze formate spesso da una cinquantina di cani che corrono ed abbaiano tutti insieme.
Provai una grande emozione quando sparai e colpii il mio primo cinghiale.
Mi si era presentato proprio di fronte ed io prontissimo avevo fatto fuoco. Ero talmente teso che non mi accorsi nemmeno che erano stati sparati altri dieci colpi. Tutti asserivano di averlo colpito per primi e quasi ne sorse una disputa. L ‘intervento di un ingegnere di Siena, presente alla cacciata e che era ritenuto da tutti molto esperto di queste cose, mise fine alla discussione. Dopo aver esaminato l’animale e la nostra posizione, sentenziò che era stato il mio colpo, e solo quello, ad uccidere il cinghiale.
Vicino a me era appostato un altro signore di Siena, un certo Lorenzo Fardelli, che, pur essendo in una posizione più favorevole della mia, non aveva sparato. Gli chiesi il motivo di quella sua rinuncia ed egli mi rispose che, essendo io un ospite, dovevo avere il privilegio di sparare per primo. Mi meravigliai per questo suo comportamento e ne fui positivamente impressionato. Anch’io poi nelle successive cacciate mi comportai con gli amici sempre nello stesso modo.

In tutte le cacce a cui avevo partecipato riuscii con il mio fucile ad abbattere non più di cinque o sei cinghiali. Ero diventato comunque un veterano di questo tipo di caccia e sapevo sempre dove il cinghiale sarebbe apparso. Mandavo là gli amici che così provavano la grande emozione di un simile incontro.
I cani facevano uscire dalla macchia anche lepri, caprioli, fagiani ed era uno spettacolo veramente entusiasmante.

Voglio raccontarvi un altro fatto, abbastanza significativo, per capire come si svolgevano queste battute di caccia.
Io ero alla posta in attesa del cinghiale, e ad una trentina di metri da me era appostato il fratello di un reverendo di Siena, che partecipava sempre alle battute, ma non aveva mai sparato ad un cinghiale.
Quel giorno, mentre la canizza si allontanava, sentivo che dal bosco un cinghiale veniva verso di noi. Arrivò fino ad una decina di metri da me e si fermò dietro ad un cespuglio. Ero pronto a fulminarlo, ma aspettai. Sennonché quel signore alla mia destra, trovatosi di fronte l’animale, non ebbe esitazioni e sparò uccidendolo. Poi venne da me e mi chiese il perchè della mia esitazione: non si era accorto che presso il cinghiale vi erano dei cani.
“Caro signore – gli risposi – non sa che se avessi colpito un cane al posto del cinghiale mi sarebbe costata la bella somma di quattro milioni di lire?”

La stessa situazione mi capitò anche un’altra volta mentre si cacciava il cinghiale sul Poggio del Parini, una località alla fine della riserva che sarebbe stata comperata in seguito da un nostro amico di Carpenedolo.
Ero alla posta e sentivo venire il cinghiale verso di me. All’improvviso mi apparve una scena che mi fece esplodere il cuore in petto: un gruppo di cinghiali, attorniato da molti cani si era fermato a tre o quattro metri dalla mia persona. Erano degli esemplari magnifici, grossi come non mai, imponenti, dalla mole eccezionale: non trovo parole per farvi capire come veramente fossero. Simili animali non ne vidi mai più. Uno di loro sarebbe stato un trofeo da far invidia a tutti i cacciatori sia indigeni sia forestieri. Per mia grande sfortuna non potei sparare per non colpire i cani che erano ad essi troppo vicini: peccato!

Ultima avventura.
Pur avendo raggiunto la venerabile età di ottant’otto anni, volli ancora aggregarmi agli amici che andavano a Monticiano per una battuta al cinghiale.
Le gambe cominciavano a non darmi molto affidamento per cui, d’accordo con il conte, mi fermai alla prima posta. Dopo un po’ di tempo sentii la canizza che veniva verso di me: si avvicinava e poi si allontanava. Si spostava sulla sinistra e poi deviava. Infine, a circa trenta metri dalla posta, comparve un maestoso maschio. Io mi spostai verso quel punto e sparai una fucilata. Ma i miei riflessi erano ormai appannati e l’animale ebbe salva la vita. Sarebbe stato degno di un prestigioso premio!

Capii che quella era per me l’ultima cacciata al cinghiale: non potevo certamente pretendere di più.
Mi fermai un poco a meditare sulla faccenda e mestamente mi ritirai in buon ordine. Uscii sconfitto, ma a testa alta, pensando a tutte quelle belle e fruttuose cacce che nel corso degli anni avevano allietato la mia lunga vita.

Addio macchie e boschi che celate nel vostro interno quegli splendidi animali, addio amici sinceri e magnanimi. Addio Toscana!

Negli anni che il buon Dio vorrà ancora lasciarmi su questa terra vi porterò sempre nel cuore.

Domenico Margini

Pubblicato in I nonni raccontano.