Vincenzo Chiesa: i miei ricordi di scuola e di guerra

Ho 82 anni, essendo nato il 7 febbraio del 1922 a Brescia, non all’ospedale, come era solito allora, ma in casa dei miei genitori in via Aleardo Aleardi n.1.

Prove corali dei canti natalizi

Prove corali dei canti natalizi

Attualmente sono ricoverato nella casa di riposo per anziani di Pralboino in provincia di Brescia. Come mai sono qui? Per interessamento e volontà di mia moglie che qui a Pralboino era nata e vissuta fino al matrimonio con me e quindi era conosciuta da tutte le persone che la hanno sostenuta nella sua richiesta di ricoverarmi in questo Ente.
Qui mi trovo bene sotto l’aspetto materiale, ma male sotto l’aspetto morale perché sono sempre preso dai ricordi di una vita felice e fortunata del passato, che io confronto, in ogni momento, con la mia misera attuale situazione di ricoverato in seguito a un grave “ICTUS” che mi ha reso emiplegico, cioè paralizzato, nella parte sinistra di tutto il corpo pur conservandomi fortunatamente la sanità della mente, anche se sono costretto a vivere su una carrozzella. Avverto pure, quasi inconsciamente, anche il peso dell’età ed allora il confronto con il passato è più penoso e avvilente: spesso mi provoca pianto, tristezza e mi rammarico di essere ancora vivo.
Fortunatamente ho due figli che, sia pure troppo raramente, mi vengono a trovare e mi parlano dei loro problemi professionali. Sono commercialisti e continuano la mia professione che io ho condotto in Brescia per più di 40anni; qualche volta mi sottopongono problemi professionali che mi fanno un poco rivivere il mio passato di dottore commercialista e mi ridanno vigore per tirare avanti quando trovo soluzioni a talune problematiche che loro mi sottopongono; io mi sento,allora, vivo, utile e sollevato nel morale anche perché ho una buona memoria sia di quanto ho studiato e appreso ai tempi della scuola sia della pratica acquisita.
Parlando della mia famiglia debbo dire che non era ricca ma mi ha dato, specie per merito di mia madre, tutto ciò che poteva: una professione e un posto di rispetto nella società, scuole adeguate credendo che io fossi un figlio speciale e dovessi e potessi riuscire in tutto così come in genere tutti i genitori credono per i loro figli.
Io ritengo che i loro desideri e aspettative si siano avverati in quanto tutta la mia fa miglia, compresa quella di mio fratello, si è elevata di un grado: da famiglia operaia a famiglia di professionisti liberali quale era il mio desiderio e volontà.
Di fatto era mia madre che mandava avanti la casa per mezzo del suo lavoro di sarta. Era una brava sarta per signora che aveva imparato l’arte a Milano in un atelier rinomato dove, da giovane, aveva lavorato per alcuni anni; poi, sposatasi con mio padre, aveva aperto una sua sartoria in Brescia. Le clienti l’apprezzavano ed erano sempre soddisfatte della sua bravura e della sua classe nella confezione facendole così pubblicità e procurandole altre nuove clienti. Aveva alle dipendenze 5 o 6 ragazze che desideravano imparare il mestiere; ricordo ancora oggi il laboratorio-atelier di via Aleardi nonostante allora avessi solo 2 o 3 anni e ricordo pure alcune delle ragazze che poi sono diventate anche amiche di famiglia ed hanno aperto una loro propria sartoria.
A quell’epoca quando le signore clienti venivano per la prova dell’abito o per la scelta del modello o della stoffa, io, bambino, baciavo loro la mano cerimoniosamente. Venivano sempre a casa mia anche diversi agenti di commercio francesi dai quali mia madre comperava i modelli di abiti provenienti da Parigi, che allora era il centro mondiale della moda femminile. Il difficile era il taglio della stoffa, taglio che richiedeva grande competenza, intelligenza e attenzione; lavoro questo che mia madre faceva assolutamente da sola alzandosi dal letto, di notte, anche alle tre e mezza per non essere disturbata da alcuno in quell’arduo compito che la assorbiva completamente.
All’età di 15 anni con i rappresentanti francesi riuscivo a parlare in francese sia pure sommariamente e ciò per merito di una nostra vicina, la sig.ra Lyda Di San Lazzaro, che mi dava ottime e continue lezioni gratuite della lingua francese che lei conosceva benissimo. Divenuto più grandicello, riuscii anch’io a conversare con gli agenti francesi.
Anche a scuola me la passavo bene col professore di francese VICINI il quale mi riteneva tra i migliori della classe e anche all’università ho fatto un esame brillante con una conversazione con il professore REVEL che mi ha dato un ottimo voto, pur non avendo io studiato la lingua straniera sul suo libro ma su un altro libro, non prescritto dal programma. L’argomento era la rivoluzione francese.
Tornando alla mia famiglia debbo dire che i guadagni della sartoria “Chiesa” erano buoni e ciò ha permesso che io, oltre a non mancare mai di nulla, potessi frequentare, sia pure da esterno ed a pagamento, una esclusiva e ottima scuola della città, quella del Collegio Cesare Arici, allora riservata ai ragazzi delle più rinomate famiglie di Brescia e di altre città del nord Italia.
Molti miei compagni di scuola erano nobili oppure conti o figli di ricchi industriali, di grossi agrari oppure di commercianti affermati. Ricordo ancora il conte Lechi, ora notaio, il conte Salvadego, poi avvocato, il conte Bettoni, anche lui notaio, il conte Calini pure questi ottimo notaio, il nobile DiPontoglio, proprietario di terre estese, i due conti Martinengo Villagana ed inoltre ricordo anche il nobile Francesco Brunelli, la cui famiglia faceva parte dell’ordine dei Cavalieri di Malta, istituzione nota in tutto il mondo della nobiltà e aristocrazia europea. Il dottor Brunelli, cattolico fervente, è stato la persona che, dietro mia richiesta, mi ha indirizzato a far parte dei partigiani nel 1944, inserendomi nelle formazioni “FIAMME VERDI” apolitiche nominalmente, ma in realtà emanazione della Democrazia Cristiana che, già allora, voleva differenziarsi dalle formazioni “Garibaldi” legate al Partito Comunista.
Com’è intuibile, le due formazioni partigiane erano in netta contraddizione tra loro in vista della fine della guerra e del ritorno alla vera democrazia.
Subito dopo la fine della guerra, noi ex fiamme verdi ci siamo opposti, con l’appoggio del Prefetto della città, ad una possibile manomissione dei risultati delle libere elezioni.

Vincenzo in versione natalizia

Vincenzo in versione natalizia

A proposito delle due formazioni contrapposte debbo dire che ogni formazione garibaldina disponeva di un Commissario politico che, fin da allora, educava alla visione comunista i componenti intrattenendoli per un’ora al giorno in una conferenza esclusivamente politica. Un mio amico, Sandro Ragazzoni, garibaldino per caso e incontrato fortuitamente sulle montagne della Valle Sabbia, mi diceva anche che i partigiani che non condividevano le visioni del Commissario politico sparivano e nessuno ne aveva più notizie.
Il Commissario del gruppo di Sandro si faceva chiamare CARLO e, dopo la guerra, è diventato l’onorevole Nicoletto del Partito comunista.
L’Arici era anche frequentato dai figli delle più esclusive e rinomate famiglie di Brescia: professionisti come l’avvocato Reggio, membro del Parlamento, oppure ricchi industriali, come Togni, proprietario della più importante industria metalmeccanica bresciana, ma anche facoltosi commercianti come Barbi, il quale mandava a scuola il figlio dentro un bellissimo landò chiuso, trainato da un cavallo e guidato a cassetta da un cocchiere che era esposto alle inclemenze del tempo.
All’Arici, che ora è anche la sede dell’Università Cattolica, ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e l’istituto tecnico inferiore per un totale di 10 anni, assorbendone l’etica, la morale ed i principi fondamentali della vita sociale, non escluso il galateo che ogni domenica ci veniva insegnato per un’ora nell’aula magna del collegio. Conservo ancora un vivo ricordo di un collegiale interno nella sua divisa nera con pantaloni lunghi e la giacca pure nera ma con i bottoni di colore oro il quale rincorreva il pallone giocando con altri ragazzi della sua età: quel collegiale si chiamava MONTINI che è poi diventato papa col nome di PAOLO VI.
L’Arici era condotto dai Padri Gesuiti e le scuole comprendevano anche il ginnasio ed il liceo classico, oltre all’istituto tecnico inferiore, scuola quest’ultima che dava accesso alle scuole tecniche statali nel ramo industriale o commerciale sfornando periti industriali, geometri, periti agrari, ragionieri o altri tecnici.
I professori dell’Istituto Tecnico dell’ARICI erano anche professori del liceo classico e del ginnasio per cui trasmettevano, forse inconsciamente, una ottima impronta culturale classica anche nell’insegnamento per i futuri ragionieri o periti industriali, impronta che nelle scuole statali non si riceveva affatto perché in quelle si dava più importanza alla futura professione.
La differenza culturale tra le due scuole, la pubblica e l’Arici, era notevole e noi alunni la rilevavamo nelle occasioni di “frammistione” con quei ragazzi: sia il modo di parlare sia il comportamento erano ben diversi.
Devo sempre ringraziare mia madre se sono riuscito a diventare un professionista liberale invece di divenire un qualsiasi operaio o impiegato come invece sarebbe dovuto fatalmente accadere provenendo io dalla classe operaia o artigiana.
Mio padre invece non avrebbe potuto indirizzarmi bene perché quando io avevo solo due anni, nel 1924, era stato licenziato dalle Ferrovie dello Stato in quanto antifascista. Veramente egli aveva solo partecipato ad uno sciopero ferroviario con lo scopo, poi riuscito, di non fare partire un treno carico di armi e diretto alle forze contro rivoluzionarie russe. Ecco perché mia madre pensava a tutto con i frutti del suo intelligente lavoro e la sua capacità artigianale.
Mio padre ha condotto, poi, per alcuni anni, un’azienda commerciale di farine da panificazione; ma la mancanza di capitali e la famigerata politica fascista di ”QUOTA 90” , nonché la crisi mondiale del 1929, lo hanno costretto a chiuderla. In seguito è diventato agente di commercio nel ramo di granaglie e farinacei ma i suoi guadagni erano modesti ed anche lui, pertanto, godeva dell’aiuto della moglie per mandare avanti la famigliola.
All’età di 11 anni i miei genitori, preoccupati per il mio avvenire, mi hanno iscritto alle scuole statali magistrali perché diventassi, almeno, maestro e potessi guadagnarmi da vivere decorosamente nella media classe sociale di quel tempo. Quel tipo di studi e il conseguente sbocco lavorativo non mi piacevano affatto per cui, non studiando adeguatamente, mi ritrovai bocciato alla fine della prima classe.
Sempre pensando al mio futuro, i miei genitori mi iscrissero, all’età di 14 anni, all’Istituto Tecnico Superiore per ragionieri “Ballini” di Brescia. Ottenuto il sospirato titolo, mi iscrissi all’università di Torino, facoltà di scienze economiche e commerciali, passando successivamente, una volta terminata la guerra, all’università privata Bocconi di Milano, dove ottenni la laurea nel 1951.
Dopo un periodo triennale di pratica professionale presso l’unione delle Cooperative e lo studio commercialista del dottor Lino Filippini, aprii un mio studio professionale, subentrando al dottor Marengo, commercialista morto in un incidente automobilistico nel 1955, proprio nel periodo di maggior lavoro dovuto alla riforma fiscale Vanoni.
Anche in tribunale mi sono fatto conoscere e sono stato nominato curatore di numerosi fallimenti o “procedure concorsuali” entrando così in contatto con giudici ed avvocati che, a loro volta, mi hanno procurato lavoro qualificato e ben retribuito.
All’età di 21 anni sono stato chiamato alle armi ed ho dovuto frequentare, quale studente universitario, un corso militare a PIETRA LIGURE (Savona) per divenire Ufficiale del Regio Esercito italiano. A quel tempo c’era la guerra in Africa e in Russia ed io temevo fortemente che, una volta divenuto ufficiale, sarei stato mandato in Russia con la Divisione “Cosseria”, di cui il mio battaglione faceva parte. La” COSSERIA”, poi, come tutto il corpo di spedizione italiano in Russia, lo”CSIR”, sarà accerchiata e distrutta dai russi nella nota sacca del fiume Don. Molti suoi componenti morirono in battaglia o per congelamento.
In quella ritirata è tuttavia avvenuto il glorioso episodio della vittoria di NIKOLAJEVCA per merito della Divisione Alpina TRIDENTINA e specificamente del battaglione “VESTONE” guidato dal generale Riverberi che io ho conosciuto personalmente essendo quello un cliente dello studio del dott. Filippini.
Dopo l’8 settembre del 1943 e il conseguente scioglimento dell’esercito italiano, ho affrontato un avventuroso trasferimento da Roma a Brescia con indosso la divisa militare correndo tre grossi rischi di essere fatto prigioniero a Firenze, a Gonzaga ed a Mantova.
Fortunatamente sono riuscito a tornare a casa, anche se inviperito contro i tedeschi e i fascisti loro alleati per lo scacco subito dall’Italia con l’invasione germanica e con la restaurazione del fascismo che di quello stato di cose era il responsabile.
Il 6 giugno 1944 scelsi così di unirmi ai partigiani delle “FIAMME VERDI”, partecipando ad azioni di guerriglia. Anche come partigiano sono stato fortunato: il mio gruppo composto da circa 20 partigiani è sempre riuscito a sfuggire ai rastrellamenti fascisti e tedeschi. Tuttavia il 20% dei partigiani del mio gruppo è morto perché catturato o ucciso.
Tra essi ricordo:
a) Emiliano Rinaldini ucciso a tradimento dai fascisti che gli spararono alla schiena una raffica di mitra dopo avergli suggerito di fuggire in un viottolo;

b) Ugo Ziliani, uomo mite, di intelligenza e di cultura rare e mio capogruppo in Valle Trompia, ucciso come Rinaldini con lo stesso metodo;

c) Ippolito Boschi detto”Ferro” eroe di una azione che intendo qui riassumere.
Durante un rastrellamento dei repubblichini vi era stato un combattimento tra fascisti e partigiani del gruppo di Renato (Renato Mombelli): questi, dopo la cattura, era stato trasportato, quasi morente perché colpito al torace da una raffica di mitra, all’ospedale di Salò. “Ferro”, entrato dentro l’ospedale di notte, con le armi in pugno, si era diretto alla stanza occupata da Renato, che era sorvegliato da due soldati fascisti. “Ferro”, entrato nella stanza, aveva sparato e ucciso una guardia ma, a sua volta era stato colpito e ucciso dall’altra guardia. Gli altri partigiani partecipanti all’azione di salvataggio portarono via, a spalle, tanto “Ferro”, ormai morto, quanto Renato ferito, prima che giungessero i rinforzi fascisti chiamati d’urgenza.
Il cadavere di Ferro fu trasportato in una casa privata e sistemato, per nasconderlo ai fascisti, in un sottoscala.
I funerali di Ferro sono poi stati fatti dopo il 25 aprile nel suo paese di Sabbio Chiese con una solenne cerimonia.
Renato è ancora oggi vivo e partecipa sempre all’incontro di Barbaine che le Fiamme Verdi celebrano ogni anno la seconda domenica di ottobre in Pertica Alta presso il paese di Livemmo.

Buon compleanno, Vincenzo!

Buon compleanno, Vincenzo!

d) ” Battista Pelizzari detto “Fabio”, colpito in piena fronte da un proiettile tedesco e morto immediatamente .Fabio aveva solo 16 anni e si era unito al nostro gruppo la sera del 4 settembre 1944 che era un sabato. Alle ore 9 del 5 settembre era già morto a causa della nostra imprevidenza in quanto non ci eravamo disposti a difesa contro un eventuale accerchiamento tedesco ingenuamente ritenuto impossibile sulla base della fortuna che ci aveva sempre assistito in precedenza.
A parziale nostra giustificazione debbo dire che in tutti i rastrellamenti precedenti eravamo riusciti a defilarci con molta fortuna e inoltre che non possedevamo armi e munizioni per un vero combattimento. Solo due di noi, io e Bruno, avevamo cognizione di battaglie difensive: Bruno, per aver partecipato alla ritirata dalla Russia ed io per avere combattuto a Roma contro i tedeschi che ci volevano disarmare e spedire in Germania nei loro campi di concentramento.
Tanti sono i miei ricordi del periodo 1943-1945, alcuni belli ed eroici, altri meno belli ma, nel mio immaginario, sempre soffusi da un alone di avventura eroica, connaturale a quella età e nello stato di cose che stavamo vivendo.
Certo è che, se confronto quell’esperienza giovanile con la vita di oggi qui a Pralboino, mi sento deluso e depresso; ma forse è l’età avanzata che mi deprime col ricordo di tutto un passato che viene alla mia mente quotidianamente in tutti i suoi particolari, anche i più insignificanti.
L’unico mio desiderio attuale è di poter cominciare a camminare da solo e spero che la mia fisioterapista Laura riesca allo scopo prima della mia morte che intuisco ormai vicina.
Purtroppo all’età di 73 anni sono stato colpito da un ictus ed ora mi trovo nella casa di riposo, dove sono sempre solo con i miei pensieri della vita passata e non trovo amici o persone con cui io possa dialogare, salvo il Presidente che spesso mi dedica la sua attenzione, la sua comprensione e la sua amicizia.

Pralboino, 17 dicembre 2004

Vincenzo Chiesa

Pubblicato in I nonni raccontano.