Giusi Morbini: dal baco … alla seta sul filo dei ricordi

Bisogna avere almeno quaranta anni per guardare i filari dei gelsi e ritrovare fili di seta nella trama della memoria. Questi alberi, i pochi rimasti, fanno da confine tra campo e campo. Inutili tronchi tozzi dalle cortecce ruvide, castigati nelle chiome durante la potatura. Non era così fino a trenta anni fa. Producevano l’unica foglia adatta per i bachi, quindi stavano all’inizio di una catena che portava direttamente al tessuto pregiato della seta.
Verso la fine di aprile o, al più tardi, ai primi di maggio, mia madre andava al consorzio agrario e tornava con una scatolina giallognola contenente un cartoncino forato e i semi (in realtà uova) dei bachi o meglio delle briciole nere che iniziavano subito a mangiare. Ne prendeva un’oncia, due e in certe annate arrivava persino a tre (un’oncia era circa il contenuto di un ditale) e li teneva al caldo e all’asciutto. Crescevano in fretta, mangiavano a dismisura e aumentava il numero delle “arele” (graticci di bambù) collocati sulla “scaléra”, un supporto in legno che poteva reggere più “arele” disposte su due, tre o più piani. I “caalér” ci rubavano lo spazio in casa. La “scalera” veniva sistemata per alcuni giorni in cucina e noi bambini ci divertivamo ad andar sotto a mangiare e a giocare.

La pianta cresce se non si dimentica delle proprie radici

Mia sorella rabbrividisce al ricordo; io, invece, trovavo affascinante le continue mutazioni di pelle dei bachi, le loro numerose trasformazioni. Stavo ad osservarli: con quelle mandibole enormi, essi non facevano altro che sgranocchiare foglie e, se tacevi, sentivi nella stanza solo una specie di sfrigolio continuo. Poi, per qualche giorno, essi rimanevano immobili e silenziosi: erano in “muta”.
Le donne e i bambini procuravano la foglia di gelso. Ci arrampicavamo sugli alberi con sacchi di iuta, detti le “pelarine” , appendendoli con un gancio ai rami.
Dalla cucina, le “arele” venivano spostate nella ex-stalla dei cavalli ed infine sul fienile, ma non era raro che in alcune cascine facessero tappa anche nelle camere da letto. I bachi erano sempre più grossi e sempre più avidi. Erano gli uomini, ora, a tagliare interi rami per il loro pasto quotidiano: mangiavano “a furia”. Terminato il tempo dell’abbuffata, noi si collocava sui graticci rametti, pezzi di saggina, fogli di carta o paglia e… aspettavamo l’ora della metamorfosi.
Ancora una volta si ripeteva il miracolo del “bozzolo”. Come tutto quel verde mangiato potesse diventare, come d’incanto, candido filo avvolto intorno ad una farfalla, faceva e fa parte dei misteri della natura.
Desgaletà” (raccogliere i bozzoli prima che si forassero) era poi una festa, e coincideva per noi ragazzi con la gioia per la fine di un altro anno scolastico.
Le “galète” venivano riconsegnate al consorzio. Erano poi destinate alla filanda.
I soldi li intascava sempre mia madre, che li usava per comperare qualcosa per la casa: non era un guadagno da poco ma certamente era costato molta fatica.
Non avevano dunque nulla da invidiare i tozzi gelsi al tronco slanciato dei pioppi, all’imponenza del platano e della quercia, all’elasticità del salice e del sambuco, alla durezza e all’importanza dell’ontano, ai contorti rami della robinia.
Le loro radici tenevano ben salda la riva dei campi e la loro chioma era destinata ad essere trasformata in splendida seta. E neppure si può dimenticare la dolcezza dei loro frutti estivi che ti lasciavano macchie violacee, indelebili per giorni, intorno alla bocca e sulle mani.

Giusi Morbini

Pubblicato in I nonni raccontano.