Domenico Margini: il lavoro e la città

Come ho già detto a dodici anni raggiunsi la mia famiglia in città: era il periodo della Grande Guerra. La nostra prima abitazione era in vicolo San Paolo, vicino alla casa di riposo detta “Casa Industria”.
Mi ricordo il primo impatto con la città. Avevo iniziato a visitare i dintorni della mia casa e, tra vicoli e piazzette, raggiunsi via Musei. Leggevo tutte le targhe che facevano bella vista sulla facciata dei palazzi cercando di capirne il significato; la mia attenzione fu maggiormente attratta da quella che parlava di un certo “Giuseppe Zanardelli”.

Mentre ero intento ad esplorare quei luoghi a me sconosciuti e che mi suscitavano un senso di timore quasi reverenziale, mi si avvicinò una vecchietta che probabilmente aveva capito che venivo dalla campagna e aveva visto il mio interessamento per la targa di Zanardelli.
Disse: “Ricordati! Quell’uomo è stato a capo del governo per tanti anni ed alla sua morte si sono celebrati i funerali a spese del Comune perché non aveva nemmeno una lira! ”
Nei primi anni cambiai diversi mestieri: pulii i giardini della città, feci l’imbianchino, e poi lavorai come operaio nello stabilimento di Sant’Eustacchio fino alla fine della guerra, quando tornarono dal fronte i miei quattro fratelli e con loro migliaia di giovani.
Mio padre avrebbe desiderato che io facessi l’imbianchino. La paga era però molto misera (tre soldi alla settimana) ed io non ero minimamente soddisfatto. Quando incontrai un caro amico, egli pure di Seniga, che mi disse di guadagnare circa ottanta soldi alla settimana, lavorando presso lo stabilimento di S.Eustacchio di Brescia, presi la decisione di cambiare. Senza avvisare i genitori mi feci assumere presso questo stabilimento. Alla fine del mese presi un bel gruzzolo e lo portai felice a mio padre che però non manifestò molta gioia. Prese i soldi, perché ne avevamo estremo bisogno, ma si dimostrò molto deluso dal mio comportamento: gli vidi scendere sul viso una lacrima.
Naturalmente, per far posto ai reduci della guerra, venni licenziato e dovetti cercarmi un altro lavoro. Per mia fortuna tornai alle dipendenze del Comune, ma non per la manutenzione dei giardini bensì presso l’Ufficio Tecnico per ” canneggiatori ” .Qui conobbi molte brave persone stimabili sia sul piano morale che professionale. Ricordo in particolare gli ingegneri Baldrighi e Conti ed i geometri Ricci e Grisoni. Quest’ultimo si affezionò subito a me e diventammo grandi amici: eravamo solo noi due ” canneggiatori “.

Dovendo rinnovare il piano regolatore della città, il Comune assunse altre persone con le quali però non riuscii a legare. Mi trovavo piuttosto a disagio. L’amico Grisoni mi disse allora: “Vuoi cambiare lavoro? Ci sarebbe un posto di apprendista presso una cartoleria della città. I padroni sono bravissima gente e ti troverai bene. Prova”. Accettai l’invito e lasciai il Comune. La cartoleria si trovava in via X Giornate ed era di proprietà dei signori Conti. Lo stesso Grisoni venne gentilmente a presentarmi ai nuovi datori di lavoro che mi accolsero molto benevolmente.
Presso i Conti trovai una vera famiglia: ricevetti da loro tanto bene ed un’ottima educazione; se in seguito divenni “qualcuno” nel campo del mio lavoro lo devo quasi totalmente a loro.
Rimasi alle dipendenze della famiglia Conti per ben vent’anni e non scorderò mai l’affetto che da essi ricevetti. Anch’io comunque facevo di tutto per farmi voler bene, tanto che dopo qualche anno mi affidarono addirittura le chiavi del negozio e con esse molta responsabilità.
La signorina Teresa mi diceva sempre che avevo la faccia del poliziotto. Aveva forse ragione dato che una volta, dopo diversi appostamenti, avevo colto un dipendente a rubare. Lo licenziai io stesso.
Avrei potuto davvero fare il poliziotto, avevo fiuto! Un giorno, guardando fuori dalla vetrina, vidi un uomo che fingeva di leggere il giornale, mentre invece osservava i miei spostamenti all’interno del negozio. Quando alle dodici e trenta chiusi per il pranzo, chiamai la signorina Teresa e la misi al corrente dei miei sospetti.

Pur avendo serrato bene tutte le porte non mi sentivo tranquillo e per tre o quattro volte scesi dall’appartamento a controllare il negozio. Come mi sedetti a mangiare un cibo ormai freddo, pregai mia moglie di scendere a dare ancora un’occhiata. Sentii un urlo e mia moglie che chiamava aiuto. Tutta agitata mi riferì di aver visto due uomini che uscivano di gran corsa dal negozio. Mi precipitai a controllare l’interno e mi accorsi che avevano rubato parecchie cose compresi due libretti della banca. Potete immaginare la mia rabbia!
Telefonai immediatamente in Questura e avvisai i proprietari che accorsero subito.

Vedendomi molto agitato si rivolsero a me con un sorriso rassicurante e mi dissero: “Non ti crucciare troppo, ormai è finita. Non è stata poi la fine del mondo!”
Che fare? Presi la bicicletta e, dopo essermi aggirato attorno alla banca di cui eravamo clienti, puntai deciso verso la stazione ferroviaria, istintivamente.
Non avevo mai fumato ma, acquistato un pacchetto di sigarette, ne accesi una, sia per calmarmi che per darmi un tono di… noncuranza. Osservavo l’andirivieni dei treni: in special modo quelli che partivano. Ad un certo punto il treno proveniente da Venezia e diretto a Milano si fermò proprio davanti a me e molti passeggeri scesero e salirono.

Con mia somma meraviglia vidi affacciato ad un finestrino proprio l’individuo che mi aveva osservato con insistenza mentre chiudevo il negozio. Mi precipitai nell’ufficio della polizia ferroviaria e raccontai l’accaduto al poliziotto di servizio. Dapprima costui si rifiutò di intervenire ma, viste le mie insistenze e la mia agitazione, decise di controllare. Appurò che i presunti ladri erano due e provenivano da Rezzato ( dove probabilmente si erano imbarcati per evitare la stazione di Brescia).

Il poliziotto mi disse di poter fare nulla contro quei due perché secondo lui erano a posto. Allora gli urlai: “Si ricordi bene che se lei non li ferma io la denuncio!”
A questo punto li fece scendere dal treno e li portò in ufficio; io telefonai alla signorina Teresa invitandola a venire per un controllo. Anch’ella confermò quanto avevo riferito al poliziotto.

Costui chiese se tra il denaro che i ladri avevano nelle tasche ci poteva essere qualche moneta particolare o segnata, facilmente individuabile. La signorina Teresa si ricordò che tra le monete trafugate ci dovevano essere cento lire con una macchia di ruggine che copriva totalmente la testa del re. Un veloce controllo e la moneta in questione saltò fuori. A questo punto il poliziotto fu convinto e, con l’aiuto di alcuni colleghi, arrestò i due ladri che poi risultarono essere pregiudicati provenienti da Milano. Furono condannati a due anni di carcere.
Un anno dopo, il mio fiuto poliziesco venne di nuovo messo a dura . prova. La sede della cartoleria era stata spostata da via X Giornate a via San Faustino.
Un bel giorno si presentò in negozio un distinto signore, molto elegante e che portava al dito un prezioso anello con brillante. Diceva di essere il ragioniere che curava la contabilità della nuovissima “Centrale del latte” di Torino e che sarebbe ripassato per un controllo di certi stampati. Proprio in quel periodo stavo sistemando la documentazione degli ordini della centrale in questione e quando tornò volle vederla.
Disse poi che sarebbe tornato due giorni dopo per un’ordinazione di stampati e di altre cose.
Allora entrò in azione il mio infallibile fiuto e pensai: “Dovrebbe essere una fregatura!”
Misi al corrente la signorina Teresa dei miei dubbi e, conoscendo il maresciallo dei carabinieri Pintori, lo informai dei miei sospetti. Egli mi consigliò sul da farsi.

Preparammo la merce come da ordinazione. L ‘individuo sospetto controllò e constatò che tutto era a posto. Disse che, non essendo di Brescia, avrebbe pagato con un vaglia ricevuto dalla sede di Torino.

Il conto da pagare era di 6.000 lire mentre il vaglia era nientemeno di : 60.000 lire: gli dovevamo 54.000 lire di resto!
A questo punto apparve chiaro che anche questa volta il mio fiuto non aveva sbagliato!
Preparammo con cura la trappola. Il maresciallo Pintori venne in
negozio in borghese, mentre due carabinieri, anch’essi senza divisa,
rimasero fuori. Il maresciallo sembrava un normale cliente. La
signorina Teresa era molto titubante a pagare le 54.000 lire, ma il
Pintori ci aveva consigliato così e così facemmo.
Il nostro amico, incassati i soldi, uscì dal negozio seguito dal
maresciallo che, dopo pochi passi, lo bloccò, presentandosi per
quello che veramente era. Quel tale capì di non avere scampo e
disse: “Ho sbagliato e pagherò!”
Si scoprì che era un ragioniere di Bergamo. Con l’inchiostro da .timbri
aveva falsificato il vaglia che aveva a noi presentato; falsificazione e
conseguente truffa erano state fatte ad altre ditte della città che così, con il mio intervento, riuscirono a sistemare i propri conti.

Per festeggiare lo scampato pericolo fecero un pranzo al quale fui invitato come ospite d’onore. Del fatto ne parlarono diffusamente i giornali dell’epoca che io purtroppo non ho conservato: sarebbero stati una bella testimonianza.

Mi ero affezionato a tutti i membri della famiglia Conti ed in particolare alla loro anziana madre. Nei primi anni, quando ero ancora giovane e scapolo, andavo alla loro abitazione in viale Rebuffone per il pranzo, che poi portavo alla signorina Teresa; quindi tornavo in via X Giornate a riaprire il negozio. Ebbene durante questo intervallo ella mi chiamava e senza farsi accorgere da altri mi allungava qualche moneta da cento lire che io intascavo…con grande letizia. A quei tempi cento lire erano qualcosa!

Purtroppo si ammalò gravemente per un tumore maligno. lo andavo due o tre volte alla settimana a Crema a prendere un sacerdote guaritore che tentava di curare la sua malattia. Ci voleva altro!
Questo via vai durò alcuni mesi fino a quando la malattia ebbe il . sopravvento sulla forte fibra della signora.
Posso dire che questa amabile signora fu per me quasi come una seconda mamma. Mi mancò molto!

Un altro componente della famiglia Conti che io ricordo con affetto era Giacomo, rappresentante dei “Mulini Giannantoni” di Mantova. In caso di nebbia dovevo, almeno una volta alla settimana, accompagnarlo in quella città. Mi ricordo benissimo quei viaggi, alcuni dei quali furono alquanto avventurosi. Come quella volta che fummo costretti a percorrere tutta la strada ( 60 Km. ) a piedi camminando a turno davanti alla macchina.
Il magazzino della ditta era a Porta Venezia. Per la distribuzione dei loro prodotti in città usavano un carro trainato da un potente cavallo, dai monumentali garretti, che impressionava per la sua forza. Lo usammo anche per trasportare le merci del negozio quando traslocammo da via X Giornate a via S. Faustino.
Con questa famiglia rimasi per più di vent’anni e i nostri rapporti furono sempre più che cordiali, quasi come io fossi uno di loro, anche quando lasciai l’azienda per altro lavoro più gratificante.
Mi piace ricordare alcuni dei fatterelli che hanno costellato la mia vita con la famiglia Conti e che sono legati alla mia passione per la caccia.

Spesso al mattino mi presentavo in negozio tutto sudato e piuttosto rosso in viso. La signorina Teresa mi redarguiva dicendomi: “Ma dove sei stato per ridurti così?” lo immancabilmente rispondevo che avevo fatto due passi con i miei cani fino alla Maddalena.

Quando tornavo dalle mie cacce le facevo sempre assaggiare qualche capo di selvaggina. Ed eccoci al primo fatterello.

Di ritorno dalla Valle di Ledro con due splendide coturnici gliene regalai una affinché la cucinasse. Dopo alcuni giorni, senza esserci minimamente accordati, la signorina Teresa cucinò la coturnice e così anche mia moglie. Nel pomeriggio mi presentai in negozio tutto soddisfatto per il saporito pranzo e il mio viso lo dimostrava palesemente. Mi chiese il perché di tanta soddisfazione ed io l’accontentai esclamando alla fine: ” Ah, come è squisita la coturnice!” Ella non fu del mio parere dimostrando di non essere stata soddisfatta del suo pranzo.
Allora ebbi un’idea. Chiamai il garzone e lo mandai a casa mia e a quella della signorina Teresa a prendere le mezze coturnici avanzate. Gliele mostrai facendole rimarcare che la mia era tutta rosa, ben cotta e profumata, mentre la sua era cotta a metà e piuttosto smortina; anche il profumo non era certo invitante. Non accettò serenamente il confronto e non volle ammettere che mia moglie, abituata da tempo a cucinare selvaggina, fosse più brava di lei. Successe così anche due altre volte ed io mi convinsi che era meglio regalarle la selvaggina già cotta. Ne convenne anche lei.

Da apprendista a commesso, da commesso capo a viaggiatore. La prima sede della mia attività fu Lumezzane. Quindi dovevo risalire la Valgobbia in corriera e quando il tempo era bello in bicicletta.
In questo paese, che ora è una popolosa e industrializzata cittadina,
conobbi molte persone.
Voglio raccontare un fatto che mi capitò nella ricorrenza annuale della “Marcia su Roma” e precisamente il ventotto di ottobre.
Ero stato chiamato dal commendatore Luigi Gnutti per un’ordinazione Importante.
Contrariamente alle disposizioni della gerarchia fascista non indossavo la camicia nera né la cravatta altrettanto nera. Grande fu la sua meraviglia nel vedermi così poco fascisticamente conciato. Mi redarguì con forza, spiegandomi poi, per diversi minuti, la mia mancanza e la necessità di ricordare anche esteriormente l’importanza della data in questione.
Con il passare degli anni io divenni molto conosciuto nell’ambiente degli stampati commerciali e della cancelleria ed ebbi vantaggiose proposte di lavoro da altre ditte, ma per riguardo ai signori Conti non accettai mai.
Un giorno però una mia collega mi disse che suo padre e suo nonno avrebbero investito del denaro in una bella cartoleria in Canton Stoppini (incrocio tra corso Martiri della Libertà e corso Palestro).

Mi fu chiesto di entrare in società: allora accettai. Avevo fatto il mio primo grande passo! Diedi alla cartoleria il nome di “Diana” . E non poteva essere diversamente, data la mia grande passione per la caccia.
Il successo della cartoleria fu inversamente proporzionale al mio. Ormai abituato a viaggiare non sopportavo più di restare dietro un bancone a vendere pennini: mi accorsi di aver fatto una scelta sbagliata.
Sfruttando la mia abilità in fatto di vendite di stampati tipografici commerciali riuscii ad accordarmi con l’Editrice Morcelliana che per un paio di anni mi commissionò molto lavoro.
Quando in seguito morì il loro viaggiatore, fui pregato di prendere il suo posto. Di conseguenza dovetti cedere la mia quota nella cartoleria. Però non vidi più un soldo dei tre milioni che vi avevo impegnato! ( A quei tempi era una bella cifra! ).
Rimasi alla Morcelliana per due anni, fino a quando un bel giorno fui chiamato dal signor Vannini della Società Editrice Vannini che mi fece una interessante proposta. Egli, con altri tre soci, aveva prelevato la ditta che era fallita e, per far quadrare l’operazione, avrebbe dovuto continuare l’attività, cercando però di risanare i conti. Necessitavano pertanto di un direttore valido e affidabile. Puntavano su di me. Dopo alcuni tentennamenti per l’incertezza di lasciare un posto sicuro e di affrontarne un altro che non sapevo come sarebbe stato, accettai. Diventai così il direttore della “Editrice Vannini “.
Posi comunque delle condizioni e pretesi alcuni cambiamenti che furono subito accettati. Chiesi inoltre che fosse cambiata la sede, perché quella esistente non era pienamente adatta alle esigenze di un lavoro moderno e dinamico. Mi accontentarono proponendomi un capannone di mille metri quadrati sito in viale Italia e di proprietà dell’ingegner Besenzoni. Comunque non misi piede nella vecchia sede, ma aspettai il trasloco e la definitiva sistemazione di quella nuova.
Quando presi in mano le redini del ” comando ” trovai al lavoro dodici dipendenti: sei operai e sei tra impiegati e capi. Feci sistemare le nuove macchine arrivate come desideravo io.
Poiché ci serviva un nuovo proto per la tipografia pensai di convincere quello della Morcelliana a seguirmi: e così fu. Riconosco di non essere stato molto leale verso la mia vecchia ditta e ancor oggi mi dispiace per il brutto comportamento.
La nuova azienda partì alla grande e dopo solo tredici mesi i dipendenti erano già saliti ad ottanta. Un bel traguardo che, modestia a parte, fu merito quasi esclusivamente mio.

Avevo portato con me anche un viaggiatore, Carlo Conforti, e un mio lontano nipote, Antonio Margini. Dopo circa un anno si rese necessaria l’assunzione di un ragioniere per l’amministrazione della ditta che, come ho detto, si era molto sviluppata.
Mi venne proposto il signor Antonio Scaffidi ( che io già conoscevo). Diedi il mio parere positivo perché avevo molta fiducia in lui e anche perché aveva estremo bisogno di lavoro. In pochi mesi si mise a posto fisicamente e il suo aspetto esteriore divenne notevolmente migliore. Un altro uomo!
Egli però, da buon meridionale qual era, voleva arrivare ancora più in alto, oltre le proprie possibilità. Iniziò quindi una lotta contro di me ritenendomi un intralcio sul suo cammino. Contestava continuamente il mio lavoro, volendo far credere che io fossi un incapace.
lo però in pratica dimostravo sempre il contrario: se per caso lavoravamo in perdita su piccole commissioni, ci rifacevamo guadagnando anche il 100% su forti commissioni, magari di alcuni milioni.
Ebbe inoltre l’idea balzana di far controllare l’azienda da due esperti di Milano, con l’obbligo di sborsare, anche da parte mia, circa due milioni di lire. Naturalmente contestai l’idea e gli feci capire che non avrei pagato la men che minima cifra.
Comunque quei signori vennero e fecero tutte le loro belle ispezioni sull’azienda e sull’organizzazione del lavoro. Alla fine io mi presi una delle più belle soddisfazioni della mia vita, quando scoprii dal verbale redatto dagli ispettori che tutto andava bene. Non solo! Venendomi a salutare mi strinsero la mano e mi fecero capire di aver imparato da me molte cose.
Dopo questo fatto pretesi che tutte le spese e la corrispondenza portassero la mia firma.

Le maggiori soddisfazioni mi vennero però dagli operai dell’azienda che molto apprezzavano il mio lavoro e che realizzavano con grande perizia tutto quello che io loro proponevo, anche se di difficile interpretazione. Volevano bene a me ed a mia moglie, che spesso ne invitava un buon numero a casa e cucinava loro la selvaggina che io prendevo nelle mie cacce.
Il mio lavoro presso la ditta Vannini continuò fino all’anno 1963, quando, raggiunti i limiti di età per la pensione, dovetti ritirarmi in buon ordine e fare il “pensionato “.
Potrei narrare molti altri aneddoti ‘di questa mia permanenza presso la Editrice Vannini, ma non voglio tediarvi oltre.
Voglio comunque menzionare alcune fra le maggiori ditte con le quali ebbi stretti contatti di lavoro e che apprezzarono sempre il mio operato: la Gnutti e la Polotti di Lumezzane, le fabbriche d’armi Beretta e Bernardelli di Gardone Val Trompia, la Coduri, le trafilerie di Villa Carcina, il lanificio Rossi di Concesio e in Brescia la Elettrica Bresciana (ora ENEL), la OM, il tubificio Togni, la Tempini, la Wuhrer, la Centrale del latte, la Vitasol. Presso quest’ultima trovai tanti amici che ancor oggi ricordo con affetto; e in particolar modo Astolfo Lunardi (poi fucilato dalle brigate nere al poligono di Mompiano).
Avevo allora una grande forza di convincimento verso i miei clienti, e spesso la mia grande passione per la caccia mi veniva in aiuto. Quando i miei collaboratori Carlo e Antonio, che già vi ho citato, non riuscivano come si suoI dire ad “entrare” in un’azienda, si rivolgevano a me affinché li aiutassi. lo chiedevo loro se fra i titolari o i dirigenti dell’azienda in questione ci fosse qualche cacciatore. Se la risposta era affermativa, intervenivo io portando il discorso sui cani, sui fucili, sulle lepri…Il personaggio cedeva quasi sempre e il gioco era fatto.

Un altro episodio, però al di fuori dell’azienda, conferma la mia attitudine a convincere le persone. Quando ero molto giovane e non ancora sposato, oltre alla caccia avevo anche un altro amore (anche se di gran lunga inferiore al primo): il calcio. Avevo dato vita, assieme ad altri soci, ad un club di tifosi presso il bar Nazionale in piazza Tebaldo Brusato.
Uno di questi soci si voleva sposare con una ragazza di Chiari. Egli era rimasto senza parenti e aveva quindi bisogno di un amico che per conto suo (così si usava allora) si recasse dal padre della ragazza a chiederne la mano. Tutti gli amici convennero che il più indicato per questa impresa fossi io. E così dovetti accettare l’ingrato incarico.

Una domenica mattina mi recai a Chiari, accompagnato dall’interessato. Non sapevo come entrare nel discorso, non appena fossi stato alla presenza del futuro “desiderato” suocero, né sapevo come convincerlo ad accettare la proposta del mio timidissimo amico. La mia sfacciata fortuna mi venne in aiuto.
Entrando in quella casa vidi subito appeso ad una parete un fucile da caccia. Mi finsi interessato all’oggetto ed in breve tempo il discorso si diresse verso la caccia, terreno nel quale ero secondo a nessuno. Diana fece il resto ed il matrimonio si concordò con grande soddisfazione da ambo le parti.
Per chiudere questo capitolo cito la frase che il Presidente Vannini diceva sempre a mio nipote Antonio, dopo che io ero andato in pensione: “E’ stato l’unico vero grande galantuomo che abbia mai avuto la nostra società. Egli ha lasciato un grande vuoto!” … Evviva la modestia!!!

Domenico Margini

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