Domenico Margini: el “soc” o la “soca”

Questa denominazione non l’ho mai trovata né su testi moderni, né su testi antichi: infatti è un vocabolo dialettale che in italiano significa “ceppo”. Questo termine mi porta ai ricordi della mia infanzia, cioè ai primi del novecento quando la povertà imperava.
Il ceppo è la parte inferiore di una pianta legnosa da cui si diramano le radici e si alza il tronco. Il “soc” (o la “soca”) doveva però essere di legno duro; veniva portato a casa e tenuto a portata di mano in tutti i cortili di campagna. Serviva ai contadini per fare la punta ai pali della vite o a rompere la legna, e in macelleria per fare a pezzi la carne. E’ tuttora in uso nelle case di campagna e nelle macellerie.

Il ricordo del “soc” è legato ad una storia di povertà autentica. Primi del novecento: famiglie numerose da sfamare col solo lavoro del padre. Noi eravamo in undici: otto fratelli, i genitori e un nonno!

Dunque: il ceppo era situato sotto un portico in terra battuta tenuto pulito da frequenti ripassi di scopa; sotto questo ceppo veniva steso un telo bianco che due ragazzi tenevano fermo mentre mio padre, armato di una scure,dava colpi fortissimi… a cosa? Ad un pezzo di formaggio talmente magro e duro da non potersi tagliare se non in questo modo.
Il formaggio si scheggiava: le schegge erano il solo companatico per tanta polenta.

Queste usanze sono legate al periodo della mia vita che va dai sei ai dodici anni circa. Alla mia mente si affollano i ricordi: rivedo tutto nei minimi particolari, come fosse ieri.
A sei anni iniziai la scuola. Il primo anno andò liscio: tutti promossi. Le maestre erano due e giovani giovani. In seconda si incontrava un maestro (un grande maestro per me) che si chiamava Lorenzo Spedini. Sembrava burbero ma aveva un cuore immenso: conosceva tutte le situazioni e i bisogni di ogni famiglia e aiutava tutti.
Purtroppo per ragioni di forza maggiore dovetti ripetere le classi seconda e terza. Infatti il maestro Spedini mi permetteva di uscire da scuola alle undici anzichè a mezzogiorno, poichè ero costretto a portare da mangiare a mio padre e ai miei fratelli che lavoravano in una lontana cascina. L’ora in meno di studio risultò fatale per la mia. …cultura.

Spesso mi trovavo solo a percorrere strade e sentieri isolati in mezzo alla campagna e poichè ero piccolo piccolo mi assalivano sempre tristi pensieri, ed avevo paura. Quando poi tirava aria, passando vicino ai campi di frumento, sentivo il fruscio continuo che mi evocava immagini di fantasmi e di streghe (come quelle delle storie che i vecchi raccontavano nelle sere d’inverno nella stalla o vicino al fuoco). Vi assicuro che quando ebbi la mia prima moto (una Guzzi nuova fiammante) corsi subito dalla città verso quella campagna, per rifare le stesse strade e gli stessi sentieri che avevano “terrorizzato” la mia infanzia. Certo che con la moto…
Questa vitaccia durò fmo al conseguimento della licenza di terza elementare (oltre comunque non si andava).

Dovetti quindi cercare lavoro che poco dopo trovai presso una famiglia del paese in qualità di “famiglio”, cioè di apprendista contadino.Il ragazzo viveva con la famiglia del datore di lavoro che lo ricompensava anche con vitto e alloggio.
Nel frattempo mio padre aveva trovato lavoro in città e vi si trasferì con tutti i miei fratelli e la mamma lasciandomi solo in quella famiglia fino alla fine del contratto, come si usava a quei tempi; pulivo la stalla, mungevo le mucche e le portavo al pascolo, sistemavo la legna: facevo cioè tutto quello che le forze di un ragazzino di quell’età potevano permettere. Furono giorni molto tristi. Ancora oggi quando ripenso a quei tempi mi assale l’angoscia e mi viene un nodo alla gola.
Poi finalmente il grande giorno! Mio padre venne a prendermi e mi portò nella nuova casa in città. L ‘abbraccio con la mamma e i miei fratelli mi fece dimenticare i giorni infelici.
Furono, quelli passati in campagna, anni di estrema povertà: si vivevano le stesse situazioni descritte nel film “L’albero degli zoccoli”. Mio padre durante la giornata (dall’alba al tramonto) lavorava in campagna. Poi, tornato a casa, fino a notte inoltrata costruiva con l’uncinetto dei guanti ad un sol dito che i contadini usavano per certi lavori. Alla domenica riceveva da una pasticceria di Cremona una cassetta di legno con lucchetto contenente dolcetti vari; li sistemava in una cesta di vimini e andava a venderli nelle osterie del paese. In alcuni periodi dell’anno egli con i miei due fratelli più anziani impagliava le seggiole che le donne del paese gli portavano per essere sistemate.

Anche la mamma lavorava tutto il giorno. Oltre ai lavori domestici (undici bocche da sfamare, undici vestiti da rattoppare…) allevava bachi da seta che nutriva con le foglie di gelso che andava a raccogliere nei campi. Inoltre si alzava di notte a lavorare il lino, e, quando al mattino si svegliavano mio padre e i miei fratelli, preparava loro la colazione che consisteva in alcune fette di polenta abbrustolita e qualche pezzo di formaggio.
Mia madre sopportava a fatica quella vita così dura e pensava sempre di trasferirsi in città, contrariamente a mio padre che non si fidava a cambiare e temeva la città.

Dopo alcuni anni dal nostro trasferimento a Brescia tornai nelle campagne del mio paese accompagnato dai miei migliori cani “pointers”. Ero già un abile seguace di Diana. Cacciavo nei terreni di proprietà dei Galasi, dei Villa e dei Fenaroli, a quei tempi cacciatori famosi.
La prima volta che mi inoltrai nei terreni dei Galasi, il signor Faustino mi fece un fischio col quale mi intimava perentoriamente di uscire dalla sua proprietà; ne fece un secondo e un terzo. Allora io smisi di cacciare e mi incamminai verso di lui. Quando vide i miei cani restò meravigliato per la loro bellezza, mi fermò e volle sapere chi fossi e perchè tutte le domeniche andassi da quelle parti.
Come gli dissi di essere Domenico, figlio di Battista Margini, restò impressionato: infatti egli ricordava la mia famiglia poverissima e non si sarebbe mai aspettato di incontrare un suo figlio benestante e con cani di quella levatura.
Nel frattempo si era avvicinato un altro cacciatore del paese, Pierino Scolari, che a sua volta rimase sorpreso… dal figlio di Battista. Diventammo tutti amici anche perchè Scolari era quasi mio coetaneo. Avvenne pure uno scambio di cani, seguito da molti incontri a carattere venatorio .
Ho voluto parlare degli anni della mia fanciullezza e della povertà che imperava a quei tempi perchè spesso ne parlo con una gentile signora, maestra in pensione, che da vera amica si intrattiene con noi ospiti rievocando il passato.

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